Psicologia e internet

 

 

Cari amici,

oggi ho bisogno di voi.

Mi interessa il vostro contributo per capire meglio in che modo utilizzate internet in merito alla ricerca di uno psicologo.

Sappiamo quanto può essere delicato “scegliere la persona giusta” a cui affidare questioni spesso dolorose e spinose.

In questo usate internet?

O vi muovete solo su consiglio di amici e parenti?

Rispondete al sondaggio!

 

 

QUANDO BASTEREBBE UN BRICIOLO DI SENSIBILITÀ IN PIÙ

Lo confesso: sono arrabbiato.

All’ignoranza e all’insensibilità non ci si può abituare.

Metti una sera a cena al ristorante, con la tua famiglia. Porti naturalmente anche tuo figlio. Lo porti anche per fargli mangiare qualcosa di buono, per fargli gustare un po’ dell’allegria e della calda spensieratezza che solo il buon cibo in compagnia può regalare.

Tu – mamma – sai bene quanto per tuo figlio sia importante tutto questo. Lo sai fin da quel giorno, tanto tempo fa, in cui hai scoperto che è celiaco. Conosci bene quell’amara, quasi impercettibile, smorfia che gli appare ogni volta che deve mettersi a tavola, quando ricorda che – lui – non potrà mai essere allegramente spensierato di fronte ad un pasto. Per quanto imparerà a farci i conti e guadagnerà un po’ di serenità, dovrà sempre stare attento alle briciole, dovrà sempre chiedere gli ingredienti di ogni pietanza, dovrà spesso rifiutare perché – purtroppo – molti piatti contengono glutine.

Con questo nel cuore tu – mamma – porti tuo figlio al ristorante per gustarsi una bella pizza glutenfree. Sai perfettamente che non sarà mai abbastanza per ripagare le sue privazioni, ma sai anche che per lui sarà comunque speciale.

Ti godi il suo sguardo che scorre sul menu e sai che ha già l’acquolina in bocca mentre la cameriera annota l’ordine. Lo vedi fremere mentre attende che la sua pizza “speciale” sia pronta.

È tutto meraviglioso, puoi finalmente concederti di rilassarti e goderti la serata, quando improvvisamente tutto crolla.

La cameriera esce dalla cucina e grida a gran voce: “Dovè seduto il bambino problematico? La sua pizza è pronta!”

Ti si gela il sangue nelle vene. Ti senti morire mentre guardi tuo figlio che in un attimo diventa rosso fuoco sul viso, ti guarda e ti dice: “Mamma, vedi? Lo dicono tutti che sono un problema… anche la cameriera che non mi conosce”.

Signore e signori, la cena è servita. Peccato che il piatto forte sia insensibilità in salsa agrodolce, condita con un pizzico di ironia di troppo e decisamente farcita di troppa ignoranza.

Come psicologo sono sbalordito da tanta superficialità. Non sono celiaco e non posso realmente comprendere, ma mi lascia basito pensare che una persona possa essere talmente superficiale da definire “problematico” un bimbo celiaco, gridandolo per giunta davanti a tutti.

Voglio sperare che quel ristorante non fosse certificato AIC (e in tal caso, genitori, andate sempre nei locali certificati dall’associazione tramite la spighetta barrata!).

Ma se si dovesse scoprire che era pure certificato, mi auguro che i genitori di questo bimbo abbiano il coraggio di segnalare all’AIC questa violenza. Perché di violenza psicologica si tratta.

E’ una forma di avvelenamento emotivo che – forse – fa più male di quello “da glutine”.

Si parla molto di celiachia, ma troppo poco di celiachia nei bambini.

Perché un adulto può farsene una ragione: ha a disposizione strumenti psicologici per far fronte alla diagnosi e ai grossi cambiamenti nello stile di vita che la celiachia comporta. Ma per un bambino la celiachia è privazione, solo privazione e nient’altro che privazione.

Provate a pensare se – da bambini – vi avessero imposto di rinunciare di punto in bianco a caramelle, pane, pizza, pasta e merendine.

Certo, oggi si fa anche molto per creare dei “sostituti glutenfree” e questo è buono. Ma chi non è celiaco, spesso, questo non lo sa. E i bimbi celiaci si ritrovano frequentemente alle feste di compleanno a guardare gli altri mangiare, perché: “Scusami, non sapevo cosa comprare per te” oppure “Perdonami, mi sono completamente dimenticato che tu sei celiaco”.

Si discute molto di integrazione tra culture diverse, religioni diverse e abilità diverse, ma paradossalmente siamo ancora a questi livelli di insensibilità.

Nelle discussioni con i celiaci ho sentito spesso parlare di “ignoranza”. Io invece parlo di “insensibilità”.

Non mi aspetto che tutto il mondo della ristorazione cambi in funzione dei celiaci, altrimenti dovrebbe cambiare anche in funzione degli obesi, degli anoressici, dei vegani, degli intolleranti, dei disidratati, di quelli-che-mangiano-sciapo, di quelli-che-hanno-la-digestione-difficile e non se ne verrebbe a capo.

Basterebbe un briciolo di sensibilità in più. Quel tanto che basta a non far sentire problematico un bambino che – la celiachia – non l’ha scelta, ma se l’è ritrovata addosso.

B COME… BENEDIRE

La parola Benedire fa pensare subito all’ambito spirituale religioso.
È pur vero che la nostra personalità ha anche una componente spirituale.
La chiamiamo in modo diverso a  nostra fede o filosofia di riferimento, ma siamo concordi nel riconoscere che siamo fatti di corpo, materia, e anche di emozioni, valori, trascendenza.

Non c’è quindi bisogno di essere credenti per cogliere l’importanza di questa parola.

Ai tempi dei nostri genitori e nonni, la benedizione la concedeva il padre, il grande assente – purtroppo – della nostra epoca.
Ma anche noi, nel nostro piccolo, possiamo benedire.

Benedire significa “dire bene”, usare la nostra voce, il dono della parola per dire ciò che è buono.

Per essere capaci di dire bene, dobbiamo anche allenare i nostri occhi giorno dopo giorno a vedere bene.
Piano piano impareremo a vedere il buono… anche quando tutto sembra andare male.

Occorre disciplina e pazienza.
È un percorso lungo, non è un’arte che si impara da un giorno all’altro.
Ma è un paracadute eccezionale, è un tappeto elastico che attutisce la caduta e – a volte – salva la vita.

A COME…….. AUTOIRONIA!

Nessuna parola può aprire il “Dizionario essenziale per vivere a colori” meglio dell’autoironia.

Autoironia significa non solo ridere di sé, ma sapersi prendere in giro, avere coscienza dei propri limiti e dei propri difetti.
Significa sapersi vivere con distacco e con un atteggiamento di umiltà e pacatezza, che rappresenta il primo passo verso il cambiamento.

L’autoironia poi fa bene non solo a noi ma anche a chi guardandoci potrà accorgersi che forse… si sta prendendo troppo sul serio.

Inoltre (ma questo è un segreto, non ditelo a nessuno!) l’autoironia… disarma chi ci attacca.
Gli toglie infatti la principale arma contro di noi: pungerci sul vivo, in quei difetti che non riusciamo proprio a cambiare.

Educazione. Caro papà, perché mi lasci solo?

 

Educazione.-Caro-papa-perche-mi-lasci-solo_h_partb“Se quello che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”. È Telemaco, il figlio di Ulisse, a dire queste parole nell’Odissea, scrutando il mare di Itaca. Vecchie storie, si dirà. Peccato che da allora non sia invece cambiato niente. Anzi. Da quando il padre se n’è andato come modello, figura di riferimento e autorità morale (non sempre positiva, ma non importa), la nostalgia per lui s’è moltiplicata. E ha prodotto una cascata di effetti sociali e psicologici tale da trasformare, non in meglio, la stessa sostanza antropologica dell’Occidente.

 

Per convincersi che quella di Telemaco non sia una vecchia storia basta prestare orecchio alle odissee dei figli della provetta che si mettono alla ricerca del loro padre naturale. Come quella della trentenne canadese Olivia Pattern, che ha ingaggiato una durissima battaglia legale ancora in corso per conoscere chi sia suo padre. Non le basta sapere di essere stata concepita grazie al donatore di seme numero 128. E poco importa che la legge tuteli la privacy dei donatori o che qualche antropologo di sistema abbia dichiarato che la genitorialità è solo un dato di cultura. Chi taglia così corto si vada a vedere il documentario Anonymous father’s day di Jennifer Lahl, dove sono raccontati la «confusione genealogica» e il dolore degli adolescenti figli dell’eterologa alle prese con l’incertezza delle proprie origini.

 

E così i figli della provetta si ritrovano su internet in cerca dei fratelli biologici partendo dal numero dietro cui si nasconde il loro padre donatore. Perché è nell’incontro e nello scontro con il padre che la vita trae forza nuova, che viene generato il futuro. “Senza il suo sguardo, o anche la ferita inferta dal limite imposto dalla sua regola, si resta alla simbiosi con la madre” avverte lo psicoanalista Claudio Risè, che al tema del padre ha dedicato una vita di ricerca e di battaglia. “Il soggetto tardomoderno” continua Risé “privato del padre sente di essere fuggito davanti alla prova della vita che avrebbe fatto di lui un essere adulto: il confronto coi valori del mondo paterno”. Perché senza padre alla fine si perde la dinamicità, la memoria, il senso del dolore.

 

Il padre è futuro. Nel suo PadriMarco Pogliani racconta bene la spinta che viene dal passato dei padri, in una galleria di gesti, volti, parole che si snodano lungo le generazioni. Non solo la storia di una famiglia ma la celebrazione di quella forza naturale generata dalla continuità fra padri e figli.

 

Il padre è memoria. In Geologia di un padre Valerio Magrelli mette insieme gli appunti, raccolti per anni, sulla persona più importante della sua vita. Note scritte in maniera disordinata, ma che alla fine, alla morte del genitore, trovano una forma compiuta. Come a dare senso a un destino e a una continuità: “Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un’infinita matassa di storie”. Perché fare memoria delle origini è il solo modo che abbiamo per vincere la morte. I ricordi sono materia fertile anche nel nuovo libro di Marcello Sorgi Le sconfitte non contano, appassionato dialogo fra l’autore e suo padre sulla storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Esercizio di memoria collettiva, quello di Sorgi: rievoca le battaglie di tutta una generazione che ha combattuto per consegnare ai propri figli un mondo migliore.

 

Paternità è però anche dolore, perdita, accudimento. Come racconta Antonio Socci in Lettera a mia figlia, uno straziante diario del lento risveglio dal coma di sua figlia Caterina. Ma c’è anche chi di paternità non vuole sentir parlare, chi la considera una funzione rottamata dai tempi liquidi dell’ultracapitalismo.

 

Il demografo Michel Terrier ha scritto un pamphlet titolato Fare figli uccide, elogio della denatalità, che riprende le tesi di Michel Onfray e Noël Godin, secondo i quali i figli sarebbero “un contributo allo sfruttamento capitalista” e una forma di inquinamento del pianeta. Si tratta di narcisisti lunatici che però nella loro ideologia assecondano una tendenza. David Brooks, giornalista del New York Times, ricorda che nel 1990 il 65 per cento degli americani dichiarava che avere dei bambini era molto importante per il successo del matrimonio; oggi lo pensa solo il 45 per cento. In meno di trent’anni in Spagna il numero dei matrimoni è sceso di 100 mila unità, da 270 mila a 170 mila, mentre il numero delle nascite oggi è inferiore a quello del XVIII secolo. In poco meno di vent’anni gli italiani non ancora padri a 35 anni sono passati dal 20 al 45 per cento. Persino in Brasile il tasso di natalità è sceso da 4,3 figli per donna di 35 anni fa a 1,9 figli di adesso.

 

Ed è poi vero che senza famiglia, senza figli e con più tempo libero a disposizione si vive meglio? Secondo lo stesso Brooks, che segue da vicino il tema, non è così. “La gente sta meglio” scriveva lo scorso novembre sul New York Times “quando è avvolta in impegni che trascendono la scelta personale. Impegni verso la famiglia, Dio, il lavoro e il paese. La famiglia tradizionale è un modo efficace per indurre le persone a prendersi cura degli altri e del futuro della loro nazione”. E ha ragione. I dati presentati dai diversi “advisory council” che raccolgono i dati sulla situazione economica e sociale cui si ispira la politica di Barack Obama mostrano inoltre che le famiglie in cui mancano i padri sono più povere: i bambini in condizione di povertà sono il 7,8 per cento nelle coppie sposate, mentre salgono al 38 con le madri single. L’assenza del padre è per di più un fattore di rischio rilevante in tutti gli altri problemi: dall’uso di droghe alle grane con la giustizia, ai problemi di salute e di relazione. È di fronte a questa evidenza che nel discorso di insediamento in occasione della sua rielezione Obama ha detto: “Dobbiamo fare di più per incoraggiare la paternità. Ciò che fa di te un uomo non è la capacità di generare un figlio, è il coraggio di crescerlo. Famiglie forti creano comunità forti”.

 

Non sarà un caso se quest’anno la Poetry Society of America conferirà a Robert Bly la Robert Frost medal, uno dei più importanti premi mondiali riservati alla poesia. Bly è il fondatore del movimento degli uomini americano che da un ventennio, con buona pace dei liberal che lo attaccano come “reazionario”, parla di fame divorante del padre.

 

Perché alla fine dei padri è più facile parlarne male che farne a meno.

 

(da http://www.panorama.it)

Per i figli altro che punizioni. Meglio gli elogi (e gli abbracci)

Gli psicologi Usa: la severità rende aggressivi. La sanzione non deve mortificare, ma il dialogo non serve

Educazione dei bambini

educazioneMadre tigre addio, ora vince l’approccio gentile. Si chiama «terapia di interazione tra genitori e figli» ma, più semplicemente, è la tendenza, propugnata da una parte degli psicologi infantili, ad accantonare le punizioni (per lo meno quelle troppo drastiche) e a privilegiare elogi e abbracci. In pratica, l’imperativo per i genitori è: non fissatevi sui comportamenti «cattivi» ma valorizzate quelli «buoni». Negli Stati Uniti il dibattito lo ha aperto il Wall Street Journal : «Cominciate a elogiare i vostri figli e, di conseguenza, aumenterà la frequenza dei “buoni comportamenti”» è la sintesi fatta al quotidiano americano da Timothy Verduin, docente di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Università di New York. Non solo: gli elogi – avvertono Verduin e altri esperti – devono essere accompagnati da abbracci o manifestazioni «fisiche» di affetto, per stabilire – e rinsaldare – il legame tra genitori e prole. Le tecniche di approccio «interattivo» vengono usate spesso con i ragazzi difficili, inclusi quelli con deficit di apprendimento o iperattivi, ma la filosofia di base che le guida può adattarsi anche agli altri bambini. E di tutte le età: anche se prima si comincia meglio è, perché, se non lo si è fatto prima, a 10-11 anni imporre la disciplina diventa più difficile. 

PUNIZIONI – Punire o non punire? «La punizione rende aggressivi» dicono gli psicologi americani citando le statistiche che mettono in correlazione le sculacciate ricevute nell’infanzia con i comportamenti violenti e conflittuali in età adulta. Gli stessi medici, però, bocciano anche l’approccio dialettico: ragionare insieme, soprattutto quando si tratta di bambini molto piccoli, non serve (come, da grandi, non servono avvertimenti «ragionevoli» come quelli stampati sui pacchetti di sigarette).

L’ELOGIO – La formula perfetta starebbe nell’elogio: ai genitori si chiede di identificare i comportamenti positivi che vogliono ottenere dai figli e, quando li vedono attuati, mandare ai piccoli un riscontro positivo. Ma se l’elogio serve ad aumentare l’autostima la demonizzazione a priori del castigo non trova tutti d’accordo. «Il castigo è un’arte, e molto difficile» spiega lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet. Che illustra il metodo: «Bisogna prima di tutto capire qual è la comunicazione implicita contenuta nella trasgressione della regola: nella violazione di un patto c’è sempre, nel bambino, una speranza di potersi affrancare, di crescere. Se capiamo questo suo desiderio e lo aiutiamo a realizzarlo non ripeterà il comportamento scorretto».

L’ARTE DEL CASTIGO – Ma come fare? «La sanzione non deve mortificare ma aiutare a crescere. Per esempio, se la trasgressione sta nel non apparecchiare la tavola, si potrebbe far frequentare al bimbo un corso di cucina, per sviluppare una competenza legata al cattivo comportamento». L’arte del castigo, insomma: «La punizione – nota Charmet – è un momento educativo molto alto: il bambino che trasgredisce non si aspetta di provare un dolore fisico o morale come conseguenza della sua azione, ma vuole vedere quale sarà la reazione degli adulti al suo superare i limiti fissati» Ecco perché il «buon» castigo conclude lo psicoterapeuta, «richiede tempo e astuzia». E non deve essere una sculacciata, «o un togliere ai figli i soldi, le uscite o l’uso del computer». Sì al castigo allora, ma con intelligenza.

L’AUTOSTIMA – E l’autostima? Secondo la psicoterapeuta Federica Mormando perché il genitore trasmetta al figlio un’idea positiva si sé non bastano gli elogi, ma serve un’azione a 360 gradi. Quanto alle sgridate è necessario andare alle radici del problema: «Non è questione di giudizi positivi o negativi dati da genitori ai figli – nota Mormando – quando di educazione: bisogna educare i bambini insegnando loro poche cose ma chiare e inesorabili. E difenderle con autorità: se il genitore non è autorevole, castigo o no, c’è poco da fare».

Giulia Ziino
(da http://www.corriere.it)

L’apporto della psicoeducazione alla riabilitazione del DSA

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Il “pacchetto standard” (valutazione + riabilitazione) è sufficiente?

Sì, certamente. Nella maggior parte dei casi un buon intervento riabilitativo, strutturato a partire da una adeguata valutazione del deficit e delle risorse attivabili, permette di raggiungere un ottimo livello di funzionamento.
Il bambino sarà aiutato a riconoscere le proprie aree di difficoltà e a far ricorso alle “strategie compensative e dispensative” previste per legge e inserite nel suo PDP.
Un buon allineamento tra il professionista, la famiglia e la scuola sul percorso svolto con il bambino fornisce la giusta cornice per questo iter riabilitativo.

Perchè un intervento psicoeducativo? 
Perchè spesso il problema è “multi­livello”. Non riguarda solo gli aspetti cognitivi degli apprendimenti, ma anche quelli emotivi, motivazionali, sociali e comportamentali.
“Gli studenti senza difficoltà presentano la capacità di autoregolarsi nell’utilizzo di adeguate strategie per affrontare l’apprendimento, e questo determina in loro un buon livello nelle componenti emotivo­relazionali, quali autostima e attribuzione. Al contrario, gli studenti con DSA sono caratterizzati da un sistema metacognitivo estremamente carente con bassi livelli di attribuzione a fattori interni (impegno e abilità) e alti livelli di attribuzione a fattori esterni (compito, fortuna e aiuto), bassa autostima, bassa percezione di autoefficacia e sentimenti di depressione. (…) Secondo il DSM­IV­TR (1999) «demoralizzazione, scarsa autostima e deficit nelle capacità sociali possono essere associati ai disturbi dell’apprendimento». (…) Alcuni autori individuano come il più comune e ricorrente sintomo dei bambini con DSA un basso livello di autostima accompagnato anche dalla paura di essere considerati «stupidi» o «pigri». Oltre alla bassa autostima, anche le difficoltà comportamentali, l’ansia e la depressione sono alcuni dei sintomi associati ai DSA. Spesso una difficoltà di apprendimento può determinare una scarsa immagine di sé e bassi livelli motivazionali; viceversa, può accadere che bassi livelli di autostima determinino una prestazione scolastica inadeguata. Non è chiaro se un’alta autostima sia la causa di un buon successo scolastico, o se siano i buoni voti a determinare un incremento dell’autostima, tuttavia è più verosimile che la causalità operi in entrambe le direzioni” (Dislessia, n.1, 2008).
Stupisce pertanto la constatazione che i servizi generalmente prevedano solo interventi di carattere squisitamente cognitivo. Certo, è possibile che il problema di autostima, ansia da prestazione o di acting out diminuisca mano a mano che la prestazione risulta maggiormente adeguata. Ma è possibile che ciò non avvenga a livello profondo, specie se la diagnosi non è stata precoce e l’intervento non è stato tempestivo.

Si comprende quindi, come sia necessario in molti casi prendere in carico non solo gli aspetti cognitivi e prestazionali del disturbo di apprendimento, ma anche (e forse soprattutto) quelli emotivi, motivazionali, sociali e comportamentali.
Oltre all’intervento prettamente riabilitativo, in altre parole, è necessario un intervento che si occupi di ricomporre la “globalità” del bambino/ragazzo.

Quando è maggiormente indicato un intervento psicoeducativo?

Nella mia personale esperienza, l’intervento psicoeducativo è necessario soprattutto con:
● preadolescenti e adolescenti con DSA non riconosciuti, riconosciuti tardivamente oppure trattati in modo non adeguato
● bambini con situazioni familiari problematiche (figli di coppie separate, con anamnesi di problematiche psichiatriche, situazioni note ai servizi, ecc)
● bambini molto emotivi (ipersensibilità al rifiuto, attaccamento ansioso, bassa autostima) e/o tendenti all’acting out
● situazioni in cui sia presente conflittualità o rapporti ambivalenti tra famiglia e scuola

Quali sono le possibile forme dell’intervento psicoeducativo?

L’intervento psicoeducativo può essere svolto in piccolo gruppo, individuando 3­-4 bambini/ragazzi con caratteristiche compatibili, o in contesto individuale. L’intervento
individuale è particolarmente efficace nei casi più complessi, che rendono difficile l’inserimento in gruppo. Si fa riferimento a soggetti con compromissioni nelle aree socio­comportamentali, sia in senso esplosivo (iperattività, acting­out, scarsa tolleranza della frustrazione, scarse abilità sociali) sia in senso implosivo (ritiro, inibizione, fobia sociale, introversione).

 

Dott. Filippo Mantelli
Psicologo Psicoeducatore

L’approccio della “kinesiologia educativa” ai DSA

(da http://www.braingym.it)

Dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia sono classificazioni dei DSA o disturbi specifici dell’apprendimento.
Dislessia indica una difficoltà a leggere fluidamente e a comprendere il testo.
Disgrafia indica la difficoltà a comporre le parole graficamente e in modo sequenziale corretto.
Disortografia indica la difficoltà a comporre le parole correttamente, con le doppie e le h al posto giusto, ad esempio.
Discalculia è la difficoltà nel fare calcolo numerico e/o nel ragionamento matematico.
Ci sono vari livelli di queste difficoltà e di norma sono misurati nei classici tests applicati preso le ASL o gli ospedali.

Nella Kinesiologia Educativa questa terminologia non indica una patologia ma uno stato particolarmente svantaggioso dell’organizzazione neurologica della persona che è comunque assolutamente modificabile.
I tests studiati dal Dr. Dennison indagano in modo particolareggiato l’area cerebrale relativa alla funzione (ad es. la coordinazione occhio-mano nello scrivere) e il tipo di movimento o di pressione o di postura che è necessario applicare per stimolare la coordinazione cerebrale e la formazione di nuove sinapsi. Di conseguenza all’applicazione la persona può immediatamente sperimentare un cambiamento nell’esperienza (ad es. scrivere). Questo cambiamento viene ancorato grazie al Test Muscolare e alla ripetizione dell’esercizio finchè avviene la completa integrazione e la difficoltà è superata.

Qui accanto è rappresentato un caso di prospettiva visiva che può determinare il disorientamento durante la lettura (dislessia): le lettere appaiono sfuocate o instabili, come in movimento, la luce irregolare (in alcuni punti troppo forte in altri ci sono delle ombre). Lo sforzo di mantenere, in questo caso, gli occhi ben focalizzati per fissare le parole crea alla persona un ulteriore stress, rigidità oculare e di conseguenza difficoltà a capire il testo e a memorizzarlo.

In altri casi può esserci un disorientamento auditivo nel leggere a voce alta che può rende difficoltosa la comprensione del testo. Anche lo stress emozionale di leggere difronte ad un gruppo di persone, legato ad un’esperienza traumatica o ad una convinzione negativa (scarsa autostima), crea destabilizzazione .

Il Brain Gym® prevede, fra gli altri, i tests oculari per l’attraversamento della linea mediana e i tests per il riequilibrio energetico.

 La disgrafia come la disortografia sono spesso caratterizzate da una irregolare posizione dell’impugnatura della penna. Questo è spesso indice di un disturbo motorio e di una difficoltà di coordinazione occhio-mano e comunque di una compensazione motoria che crea fatica e stress. Infatti un’impugnatura naturale, dà la possibilità di creare un movimento rotondo e fluido, come è necessario per la scrittura in corsivo. Un’impugnatura scorretta causa tensioni muscolari eccessive e dolorose alla mano, al braccio, alle spalle alla schiena e rende impossibile la rotondità del tratto. La scrittura risultante è eccessivamente calcata, spesso non ha una proporzione regolare fra le lettere nè una dimensione equilibrata ed è difficilmente leggibile. Il disordine e la disorganizzazione dello spazio nel foglio sono caratteristiche di disgrafia.

La non leggibilità della scrittura è spesso un fattore di grande frustrazione che influisce negativamente sull’autostima della persona.
Comunemente si osserva che l’ordine delle lettere all’interno della parola è invertito; la parola è contratta (mancano lettere nella zona centrale) o è tronca (manca di conclusione).

Il ritmo della mano durante la scrittura può risultare estremamente rapido o estremamente lento. Il gesto è segmentato e spesso interrotto piuttosto che fluido e rotondeggiante.
Spesso, in presenza di disgrafia, la persona preferisce scrivere in stampatello usando prevalentemente l’emisfero cerebrale gestalt. La scrittura corsiva è il risultato di un’elaborazione del movimento che implica necessariamente la coordinazione dell’emisfero logico (sn) con quello gestalt (dx).
Con il Brain Gym® si eseguono i tests per la coordinazione oculo-motoria allo scopo di verificare la coordinazione occhio-mano e si individuano gli esercizi idonei alle correzioni necessarie.
L’Allungamento del Braccio secondo Dennison, facilita l’ortografia e predispone la persona ad una nuova esperienza del movimento della mano grazie al rilassamento della muscolatura pettorale.

Il disorientamento spaziale e un blocco emozionale sono spesso causa di discalculia. La persona sperimenta un’assenza di radicamento e una sensazione di vuoto spaziale, assenza di riferimenti oggettivi e a volte panico difronte alla memorizzazione delle tabelline, ad una divisione o anche ad un calcolo più semplice. Spesso è associata a questo disturbo una difficile comprensione del testo.
Anche quando un’operazione o un ragionamento matematico sono a fatica compresi immancabilmente dopo qualche ora la persona ha la sensazione di un totale vuoto, nella memoria non è stato sedimentato il procedimento anche se questo sembrava compreso. Questo disturbo è caratterizzato spesso da rigidità tendinea nelle gambe.

E’ importante che gli insegnanti abbiano gli strumenti per riconoscere ed individuare le caratteristiche dei DSA per poter inviare tempestivamente la persona con queste difficoltà ad un professionista della riabilitazione. Si può così evitare il vorticoso crollo dell’autostima o l’instaurarsi di disturbi del comportamento.

Richard Branson: dalla dislessia al gruppo Virgin

(da http://www.panorama.it)

Quando le cose non vanno per il verso giusto oppure quando ci si trova in difficoltà, spesso il modo migliore per gestire la situazione è trasformare i problemi in opportunità. È una lezione che ho appreso presto nella vita, in quanto mi sono ritrovato a combattere contro la dislessia, un disturbo dell’apprendimento che influenza la capacità di comprensione durante la lettura.

Ho abbandonato la scuola all’età di 16 anni, in parte anche a causa di questo problema. Infatti non riuscendo sempre a seguire le lezioni, non le trovavo interessanti e tendevo a distrarmi. Gli insegnanti pensavano che fossi semplicemente pigro, perché all’epoca la dislessia non era una disabilità conosciuta come lo è oggi. Durante uno dei miei ultimi giorni di scuola, il preside mi disse che o sarei finito in prigione o sarei diventato un milionario: una previsione sicuramente allarmante, ma per certi versi entrambe le ipotesi erano azzeccate.

Indubbiamente, fin dalla prima infanzia sembrava che ragionassi in modo diverso rispetto ai miei coetanei. Per tutta l’adolescenza il mio chiodo fisso è stato cercare di avviare un’attività, mettere in piedi qualcosa. Dopo aver lasciato la scuola ho dedicato le mie energie alla trasformazione della rivistaStudent in una pubblicazione di livello nazionale e in un’impresa redditizia.

Nel corso degli anni, il mio diverso modo di pensare mi ha aiutato nella costruzione del gruppo Virgin, contribuendo notevolmente al nostro successo. La dislessia da cui ero affetto guidava la comunicazione con i clienti e quando lanciavamo una nuova società mi accertavo che mi venisse sottoposto tutto il materiale pubblicitario e di marketing. Chiedevo a chi presentava la campagna di leggere tutto ad alta voce per mettere alla prova i testi e il progetto generale. Se riuscivo a capirlo rapidamente, l’esame era superato, infatti saremmo riusciti a comunicare il nostro messaggio solo se era immediatamente comprensibile.

Tuttora controllo le campagne pubblicitarie, e continuiamo ad adottare un linguaggio comune invece del gergo settoriale. La nostra banca, Virgin Money, non parla di “servizi finanziari” o di “massimi esperti del settore”, ma della volontà di creare una banca migliore per tutti. Semplicità e chiarezza sono al cuore di tutti i nostri marchi: le società del gruppo Virgin sono un’icona di grande valore, qualità, innovazione, divertimento e customer service eccezionale.

Tutte le volte che mi imbattevo in un problema, insieme al mio team cercavo un modo per risolverlo. Per diversi anni ho guidato la Virgin senza conoscere che differenza ci fosse tra utile netto e lordo (devo ammettere che le riunioni del consiglio di amministrazione erano piuttosto bizzarre). Ciononostante regnava una collaborazione perfetta, in quanto fin dall’adolescenza avevo appreso l’arte del delegare. Si tratta di una competenza che non tutti riescono a sviluppare facilmente, ma quando si è dislessici è necessario affidare dei compiti – in certi casi anche leggere e scrivere – ad altri di cui ci si fida e in questo modo si impara a demandare.

Come imprenditore ho capito che circondarmi di persone più brave di me in certe mansioni avrebbe rappresentato un vantaggio, in quanto sarei stato libero di concentrarmi sulle cose nelle quali riuscivo meglio. Alla Virgin abbiamo sempre assegnato la guida delle nostre società a persone eccezionali, il che mi ha concesso lo spazio necessario per pensare in modo creativo e strategico a nuove imprese e iniziative per far crescere il gruppo.

Solo da adulto ho riconosciuto a tutti gli effetti di essere dislessico. A quel punto avevo anche realizzato che le difficoltà possono rappresentare una spinta verso il successo. E in effetti una ricerca del 2005 ha messo in evidenza che un terzo degli imprenditori americani è dislessico, mentre altri studi hanno dimostrato che le persone affette da questo disturbo sono particolarmente brillanti nell’individuare i modelli e nel crearsi una visione d’insieme. Imprenditori come Thomas Edison, Henry Ford, Ted Turner e Charles Schwab erano tutti affetti da dislessia.

Quindi, se siete dislessici è importante che non vi sentiate inferiori solo perché non riuscite a compitare correttamente tutte le parole del dizionario. Diversificate i vostri interessi e le attività a cui vi dedicate per scoprire quali sono i vostri punti di forza; nel mio caso sapevo che volevo creare qualcosa per dar voce ai giovani e questa mia vocazione si è tradotta nel lancio di una rivista e di un’azienda per potermi guadagnare da vivere.

Si pensa che anche Albert Einstein fosse affetto da questo disturbo dell’apprendimento. Il famoso fisico affermò che “è un miracolo che la curiosità sopravviva all’educazione scolastica”, il che è particolarmente vero per le persone dislessiche. Il fatto di non ottenere risultati scolastici eccelsi non significa che non si può essere eccezionali.

Indipendentemente dalle difficoltà personali che ci si trova ad affrontare, bisogna avere il coraggio di accettare la propria diversità, di fidarsi del proprio istinto e di mettere in dubbio ciò che la gente normalmente dà per scontato. In questo modo si possono cogliere opportunità che le altre persone si lasciano sfuggire. Credete in voi stessi e sfruttate ogni occasione, anche gli ostacoli, come propulsore sulla strada verso il successo. E chissà un giorno che risultati otterrete!